Più di 10 mila aziende coinvolte e un fatturato annuo di 23 miliardi di euro: questi i numeri dell’Italia del riciclo.
Proprio quando a livello europeo viene approvato il “Green new deal” – con uno stanziamento di fondi non indifferente (stimato in mille miliardi di euro per i prossimi dieci anni) – l’Italia si riconferma tra i paesi leader dell’economia circolare.
A dirlo gli studi di settore, da ultimo quello dell’ “Italia del riciclo 2019”, a cura della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e Fise Unicircular, con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente, del Ministero dello Sviluppo Economico e ISPRA.
Un risultato prestigioso, dovuto principalmente alla capacità di dare vita a un modello sostenibile, basato sul riciclo, sull’innovazione e su filiere specializzate.
L’Italia ricicla e ricicla bene.
Negli ultimi anni (2017-2018) è infatti aumentata la raccolta di carta e cartone (di ben 127mila tonnellate) e per il vetro oramai esiste un rapporto di recupero di uno a uno: ossia tanto vetro si lavora e si immette sul mercato, tanto viene restituito e a nuova vita.
E ancora, dati incoraggianti provengono dal settore della plastica, con il 45% dell’immesso al consumo avviato a riciclo, a fronte di un obiettivo europeo del 50% al 2025. L’alluminio prodotto è oramai solamente quello “secondario”, cioè quello derivante da riciclo. E di esempi potrei farne tanti altri.
La scelta di puntare sul riciclo premia, sia da un punto di vista di costi che di salubrità ambientale.
A riconoscerlo anche la Svezia, che nonostante i suoi 34 termovalorizzatori attivi (che forniscono elettricità a 680mila abitazioni), ha capito che il futuro è “altro” e si sta organizzando su modelli maggiormente sostenibili, come quelli italiani.
Colonna portante di questo sistema però è la realizzazione e il mantenimento – a lungo andare – di una raccolta differenziata spinta.
Ed è per questo che risulta inconcepibile, intollerabile e non più giustificabile che alcuni Comuni italiani non hanno ancora un sistema di raccolta differenziata. Questi fenomeni devono essere oggetto di indagine e le sanzioni devono essere severe.
Allo stesso modo, non più posticipabile è la riforma organica della normativa sull’End of Waste, lasciando quella connotazione emergenziale che l’ha fino a oggi caratterizzata e consolidandola invece come modello strutturato, capace di fare la differenza e da prendere a esempio come punto di forza del “sistema italiano”. A partire dai tempi biblici di emanazione dei decreti EoW. Che non sono cosa da poco, se si pensa che a Terni, la città in cui vivo, consentirebbero il recupero della maggior parte delle scorie prodotte dall’acciaieria (quando oggi 300.000 tonnellate all’anno finiscono ancora in discarica).
Per rendere il nostro modello sempre più sostenibile, puntiamo dunque sulla raccolta differenziata, sulla riduzione dei rifiuti conferibili in discarica, sul riciclo e sul recupero.
Non dimentichiamoci degli impianti di trattamento dei rifiuti. Occorre adeguarli al mutato fabbisogno, in particolare per quel che riguarda il trattamento della frazione organica, ancora insufficiente in diverse Regioni Italiane.
Infine evitiamo di tassare ulteriormente le aziende con tributi “falsamente ambientali”, come la plastic tax, che funzionano da un punto di vista mediatico, ma si risolvono i un autogol per le imprese. Se vuoi ridurre la plastica punta sul riciclo e sul recupero.
Insomma gli ingredienti ci sono tutti, basta solo mixarli sapientemente per far si che l’Italia diventi sempre di più un punto di riferimento europeo, capace di imprimere la giusta direzione al nuovo Green New Deal.