A infiammare il dibattito giurisprudenziale e dottrinario degli ultimi tempi ci hanno pensato i c.d. codici a specchio (anche detti “voci a specchio”), tanto che è stato necessario il ricorso – e la relativa pronuncia – della Corte di Giustizia Europea.

Ma cosa sono i codici a specchio1? E perché se ne fa un gran parlare?!

Ebbene, le voci a specchio identificano quei rifiuti che possono essere alternamente qualificati come pericolosi non pericolosi, a seconda delle sostanze (pericolose) – o delle concentrazioni di sostanze – eventualmente presenti in essi. Da qui la querelle interpretativa – che ha assunto i connotati di una vera e propria guerra ideologica – in relazione agli elementi da dover ricercare. Ossia, sono da ricercare solo le sostanze ritenute “pertinenti” dal produttore/detentore del rifiuto, in ossequio al principio dello sviluppo sostenibile (come sostiene la “teoria della probabilità”) o l’indagine deve essere spinta fino all’estremo, tanto da dover ricercare tutte le possibili sostanze pericolose e il loro grado di concentrazione, in ossequio al principio di precauzione (come sostenuto dai fautori della “teoria della certezza”)?!

Il problema nasce(va) innanzitutto da una lettura superficiale delle fonti europee. Ed infatti, ogni volta che ci confrontiamo con dette fonti, non dobbiamo dimenticarci che la versione linguistica italiana non ne è che una traduzione e che quindi, per non incorrere in errori, deve essere integrata e confrontata con la stesura originale del testo (cosa che raramente viene fatta).

Ad accrescere l’incertezza ci pensava poi la L. 11 agosto 2014 n. 116 (di conversione del DL 24 giugno 2014 n. 91), che all’art. 13 comma 5-bis, eliminava – così d’emblée –  le Premesse all’Allegato D della Parte IV del TUA, recanti una seppur embrionale forma di procedura da seguire nella classificazione dei rifiuti. In sostanza, invece di darne una lettura in linea con i dettami della versione originale (della norma europea,) si preferiva eliminare fin dall’origine la parte ritenuta (discrezionalmente) incompatibile con il diritto europeo2.

Ciò portava, la Corte di Cassazione a intervenire, demandando la questione alla Corte di Giustizia Europea3, con un’ordinanza che riassumeva egregiamente i punti controversi.

La decisione della Corte Europea, anticipata dalle conclusioni dell’Avvocato Generale M. Campos Sanchez-Bordona4 – non si faceva attendere. La decima sezione della Corte di giustizia, infatti, con la sentenza del 28 marzo 2019, così decretava:

  • il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi, ma la cui composizione non è immediatamente nota, deve, ai fini di tale classificazione, determinare detta composizione e ricercare le sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi onde stabilire se tale rifiuto presenti caratteristiche di pericolo, e a tal fine può utilizzare campionamenti, analisi chimiche e prove previsti dal regolamento (CE) n. 440/2008 del 30 maggio 2008, o qualsiasi altro campionamento, analisi chimica e prova riconosciuti a livello internazionale.
  • Il principio di precauzione (richiamato dai sostenitori della teoria della certezza) deve essere interpretato nel senso che, qualora, dopo una valutazione dei rischi quanto più possibile completa tenuto conto delle circostanze specifiche del caso di specie, il detentore di un rifiuto che può essere classificato sia con codici corrispondenti a rifiuti pericolosi sia con codici corrispondenti a rifiuti non pericolosi si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.

Un’interpretazione dunque, che da ragione di entrambe le teorie, prendendo il meglio di ciascuna di esse, secondo il noto brocardo “in medio stat virtus”.

In definitiva, i rifiuti riconducibili alle voci a specchio devono essere oggetto di analisi. La relativa indagine deve spingersi fino alla ricerca delle sostanze pericolose che possano ragionevolmente trovarvisi. A fare da contraltare a tale assunto, si pone il principio di precauzione, ai sensi del quale qualora il produttore/detentore del rifiuto si trovi nell’impossibilità pratica di determinare la presenza di sostanze pericolose o di valutare le caratteristiche di pericolo che detto rifiuto presenta, quest’ultimo deve essere classificato come rifiuto pericoloso.

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